Recensione: Cicatrici
Autrice: Angie Romanini
Anno: 2020

 

 

 

Il nostro giudizio: BUONO

Recensione: Alessia Priori

Cicatrici, una catarsi poetica.
Quando viene a mancare una persona cara è inutile tentare di distrarsi con il lavoro, la televisione o un libro, perché il suo odore, la sua voce e il suo sorriso continuano a scavarti un incolmabile vuoto nello stomaco, che anche quando scompare, lascia delle cicatrici. Il libro di Angie Romanini è proprio questo: una raccolta di cicatrici, numerate una ad una, prive di connessioni logiche, tant’è che è difficile chiamarlo “libro”. Piuttosto di può parlare delle 63 pagine come di una collezione di pensieri, accompagnati da foto personali e artistiche, che permettono al lettore di viaggiare nella mente dell’autrice, sconvolta dalla perdita dell’altra metà.



Nella “raccolta” il linguaggio poetico lascia numerosi sottintesi, rilevando solo alcuni dettagli che però non completano il quadro della vicenda, ma lasciano delle macchie sfocate. Forse era proprio questo l’intento di Romanini, farci arrivare all’ultima pagina con un senso di vuoto e molteplici frammenti di memorie da ricomporre: due bambini che giocano con le pistole ad aria compressa, un vaso di terra e quattro semi, un orsacchiotto mutilato dalla rabbia di chi ormai è lontano dall’infanzia, un auto, un incidente, il mese di marzo, quando l’inverno fugge via e si porta con se chi le è più caro.

 

D’altronde Cicatrici non vuole raccontare la storia di una perdita, ma il rapporto di un anima con essa, cosicché involontariamente offre quattro delle cinque fasi del lutto sotto forma di pensieri poetici. Dapprima la negazione, il rifugiarsi in speranze per un futuro che non potrà mai realizzarsi; una giornata insieme al mare, una birra sulla sabbia, la convivenza con il gatto che inizia a chiedere attenzioni già di prima mattina. Alla realtà dell’incidente si sostituiscono immagini idilliche e fittizie, che come un sogno svaniscono non appena rigiratasi nel letto scopre di non avere nessuno accanto. Allora la negazione si estende, dai traumi ai bei ricordi: è accaduto davvero? Tutto questo amore è forse frutto dell’immaginazione?

Tali domande danno inizio alla fase di patteggiamento, ossia alla ricerca ossessiva di poter rivivere il passato attraverso oggetti, parole e momenti che erano stati condivisi con la persona persa. Romanini intraprende dunque un excursus nell’infanzia attraverso correlativi oggettivi quotidiani, sino ad arrivare all’adolescenza e alle prime esperienze insieme. Da ogni parola emerge il dolore di questa indagine mentale, condotta nella consapevolezza che il tempo non è riversibile e che ogni ricordo proviene da una dimensione di comunione affettiva che non potrà più ricrearsi. Il dolore tuttavia gradualmente si trasforma in rabbia, sia verso l’oggetto della perdita, sia verso se stessi. Il biasimo per non aver fatto nulla quel giorno, per non aver pregato in ginocchio di non lasciarla, di non prendere quella macchina si alterna al rimprovero di essersi innamorata, di aver permesso ad un emozione tanto pericolosa di distruggerla e lasciare solo macerie.
Il senso di colpa, il rancore, tutti gli “e se” si sommano sino a sommergerla in uno stato di depressione che non l’abbandona, nemmeno dopo 24 anni. I giorni passano uguali, fra amari pensieri sconnessi, frammenti taglienti di memorie, rimpianti e vuoti neri.

La raccolta si conclude così, senza una luce alla fine del tunnel. Forse proprio la pubblicazione di tali pensieri ha permesso all’autrice di raggiungere la quinta ed ultima fase, l’accettazione? O forse sta ancora raccogliendo i pezzi di una vita infranta? Questo non è possibile saperlo. Ciò che è certo è che attraverso poche parole catartiche Angie Romanini è riuscita a coinvolgere emotivamente il lettore nel proprio lutto personale e a condividere un dolore che spesso è troppo pesante per essere sorretto da due sole spalle.

 

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