Regista: Molly Stuart

Produzione: Stati Uniti

Anno: 2019

 

 

Il nostro giudizio: MOLTO BUONO

Recensione: Pierpaolo Marcone

 

 

 

 

 

Come tutti i ragazzi e ragazze israeliani della sua età, la giovane Atalya Ben-Abba sta per essere arruolata nell'esercito. Ma lei, andando contro tutte le regole sociali e familiari, non vuol saperne di far parte di un corpo militare votato all'oppressione del popolo palestinese. E perciò, seguendo le orme del fratello Amitai, intende rifiutare la chiamata e dichiararsi obiettrice, già consapevole delle pesanti conseguenze che dovrà affrontare. 

 

Molly Stuart, regista e produttrice, vincitrice, tra gli altri, del Bill Nichols Excellence in Cinema Award e del Canon Best in Show Award, racconta la storia di questa giovane coraggiosa israeliana partendo dai sei mesi precedenti la sua chiamata alle armi.

E' in questo periodo che Atalya decide di definire la natura di un sentimento di ingiustizia già avvertito dentro di sé e di recarsi in Cisgiordania per conoscere da vicino il suo presunto nemico.

Entra, così, in contatto con Osama, attivista e creatore dell'associazione “Visit Palestine”, che la conduce nei territori occupati, avvicinandola ad una comunità in realtà pacifica e accogliente. Conoscerà, tra i tanti, Oudai, pastore picchiato dai coloni e cacciato dai propri pascoli, e Borhan, agricoltore, la cui frase “La gente vuole solo dare da mangiare ai propri figli” è, al contempo, sommesso grido di dolore e manifesto di semplicità di un intero popolo.

Una volta saggiata la realtà palestinese e preso atto degli innumerevoli gesti di sopraffazione perpetrati da parte dei coloni e dell'esercito israeliano (demolizioni di case, arresti gratuiti, deviazione di corsi d'acqua), Atalya comprende definitivamente che il nemico arabo non è davvero tale, e che la sua demonizzazione è soltanto il prodotto di una bieca strumentalizzazione, frutto di una narrazione fasulla e fuorviante.

Così rafforzato il suo intento di non voler contribuire alla perpetuazione di un odioso apartheid (Ho il potere di rifiutare), Atalya affronta la disapprovazione del nonno Asa (Troppo ottimista) e dello zio Edor (La non-violenza è l'arma dei deboli), ma segna un punto fondamentale portando dalla propria parte la madre Alona, ex ufficiale dell'esercito, che, da inizialmente scettica, diventa una delle principali sostenitrici della figlia e della causa pacifista.

Ed è così, che, giunto il giorno dell'arruolamento, Atalya si dichiara obiettrice rifiutando di assumere su di sé  la nefasta responsabilità “di quello che il Paese fa a milioni di persone”.

Affronterà, per questo, 110 giorni di carcere militare che non la piegheranno, ma che, anzi, la fortificheranno trasformandola in un simbolo di lotta e resistenza.

 

Presentato nella sessione “5 storie tra conflitti e resistenze” del “Terra di Tutti - Film Festival 2020” di Bologna, “Objector” è un ottimo docu-film sulla disobbedienza civile, testimonianza delle violenze fisiche e morali inflitte al popolo palestinese e spaccato di una società israeliana pervasa da forti istanze pacifiste.

Manifesto sul coraggio di combattere per le proprie idee, “Objector”, tuttavia, non mostra né alimenta alcuna contrapposizione, perché, pur schierandosi apertamente, il suo concreto intento è quello di ripristinare il piano di realtà, proponendo, attraverso il percorso della giovane refusenik, una riflessione sul pregiudizio subito da un intero popolo ed un'istanza volta ad un dialogo possibile (“Penso che per ottenere la pace dobbiamo comunicare”). Quello stesso dialogo che cerca il già citato Osama, il cui scopo attraverso la propria associazione non è combattere l'avversario, ma “mostrare agli israeliani che siamo esseri umani […] mostrare loro la mia vita sotto l'occupazione”, ben consapevole che “l'occupazione è il male, non il giudaismo”.

 

“Objector”, dunque, è un racconto di lotta che rifiuta la violenza e cerca la parola. Una lotta apparentemente impari, eppure efficace, perché, come la goccia che scava la roccia, la tenacia ed il coraggio producono piccoli ma significativi cambiamenti. Quelli stessi che chiede Atalya Ben-Abba assieme a Tair Kaminez (“Ho visto i bambini crescere in zona di guerra. Ho visto l'impatto che ha su di loro, la paura, l'odio. Mi rifiuto quindi di prendere parte all'occupazione”), Sahar Vardi, Tamar Zevi, Ahed Tamimi e a tanti altri ragazze e ragazzi d'Israele e Palestina pronti a sacrificare la propria libertà pur di ristabilire un clima di pace e giustizia in una terra tanto martoriata e afflitta. Perché è anche grazie a loro che la speranza di un futuro migliore illumina il cielo ancora scuro dei territori occupati. Ed è a loro che la Stuart rende giustamente omaggio con un'opera molto interessante, a cui sarebbe un peccato non prestare attenzione.

 

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