Artista: Wilco

Anno: 2016

Casa Discografica: DBPM Records

 

Il nostro giudizio: BUONO

 

Recensione: Enrico C.

 

Arriva il momento nella carriera di una band in cui un nuovo album non nasce dal desiderio di lanciare una sorta di “manifesto” sonoro marcando a tutti i costi la propria identità musicale, né dall’obiettivo di proporre al pubblico il classico brano che diventi una hit a tutti i costi. Ecco, i Wilco, dopo ventuno anni di onorata carriera, sempre orientata a non scivolare nel mainstream musicale contemporaneo e a cedere alla sirena ammaliatrice delle vendite, stanno attraversando proprio questa fase.

E “Schmilco”, il decimo album da studio dell’affascinante band di Chicago ne è l’esatto emblema. Pazienza se negli Stati Uniti questo atteggiamento è stato interpretato come una sorta di “ripiegamento su sé stessi” ed è stata utilizzata l’umiliante immagine della “rock band ormai per padri di famiglia”. Certo, probabilmente nessuno dei brani di “Schmilco” entrerà in un ipotetico futuro “Greatest Hits” della band e la vena sperimentale ed avanguardista che ha sempre connotato Jeff Tweedy & Co. qui è limitata ad un solo brano, “Common Sense”, in cui emergono i suoni distorti della chitarra di Nels Cline. Ma questo non significa assolutamente che manchi in questo lavoro la splendida raffinatezza sonora di tanti album del passato. Anzi. Basta farla emergere con più ascolti e non fermarsi alla superficie per capire che pezzi come "If I ever was a child", "Happiness", "Shrug and Destroy" sono perfettamente in linea con la dolcezza e l’armonia di tante perle degli scorsi anni.

La cifra complessiva è quella delle sonorità acustiche, come anche il pezzo di apertura “Normal American Kids” fa subito presagire. E pazienza se manca, come hanno rimarcato alcuni, il sussulto o la scintilla.

Lo stesso Tweedy ha più volte rimarcato come “Schmilco” nasca da una sorta di “gioiosa malinconia”, la rilassatezza artistica di chi sa di non dover stupire o dimostrare più nulla; forse una vena snobistica in senso buono, attenta però a non scivolare mai in quello che potrebbe a prima vista essere interpretato come un inevitabile manierismo del tempo.

E’ un giocare maturo e consapevole - per niente fine a sé stesso - con gli incastri sonori ed i mix di generi in una sorta dimensione magica e onirica che viene messa in risalto dell’originale copertina illustrata dalla spagnolo Joan Cornellà.

E’ il caso di chiamarlo declino? Io lo chiamerei semplicemente serena consapevolezza di chi sa mantenere un elevatissimo standard qualitativo anche ad amplificatori staccati.

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