Artista: Pearl Jam

Anno: 2020

Casa Discografica: Republic Records

 

 

 

Il nostro giudizio: DISCRETO/BUONO

Recensione: Francesco Izzo

 

 

A distanza di sei anni dall’ultimo lavoro in studio i Pearl Jam tornano con Gigaton, undicesimo album della band di Seattle annunciato lo scorso gennaio insieme alle prime date di un Tour che sarebbe dovuto partire dagli Stati Uniti annullato a causa della pandemia globale. Gigaton oltre ad essere il titolo è il concept di un lavoro artistico che vuole mostrarci un percorso intenso e purtroppo attuale, a cominciare dalla copertina con la quale viene rappresentato lo scioglimento di una calotta di un ghiacciaio del Nordaustlandet.

Il merito va al fotografo, regista e biologo marino canadese Paul Nicklen, autore dell’agghiacciante foto. Alcune novità interessanti le troviamo nei primi singoli che hanno anticipato l’uscita del disco. In Dance Of The Clairvoyants, Matt Cameron ci spiazza con un sound di batteria simile a quello di una drum machine formando un tappeto ritmico che richiama insieme alla melodia del synth, le atmosfere cupe della new wave. Diversamente accade per Superblood Wolfmoon in cui viene rispolverato il buon vecchio sound 90’s. Chitarre sporche ed overdrive a tutta forza di McReady e Gossard mentre la voce di Vedder è supportata da echi e riverberi. Con Quick Escape veniamo totalmente travolti dal riff di basso distorto e la possente ritmica in stile Rage Against the Machine e perché no Audioslave. Il testo, che omaggia Freddie Mercury nella prima strofa, è polemico, crudo e urla la voglia di cercare “un posto che non è ancora stato fottuto da Trump”. Probabilmente è il pezzo più bello del disco. La traccia d’apertura è uno sprint forse troppo prevedibile. Who Ever Said potrebbe ricordare a tratti Getaway, la prima canzone di Lightning Bolt; il ritornello si ammorbidisce con cori armonizzati e una discesa melodica molto delicata. Non mancano momenti di sospensione come in Alright, una ballata ambient con atmosfere desertiche e con Jeff Arment in un’inedita versione alle tastiere e alla m'bira. Una brano molto statico e privo di forti variazioni melodiche facilmente associabile a Seven O'Clock, in cui le chitarre scompaiono a favore di synth e tastiere in stile “comfortably numb”, ottimo per chiudere la prima parte del disco. L’utilizzo di midtempo è un marchio di fabbrica vincente e qui lo troviamo presente in Never Destination, invece in Take the long way la ritmica irregolare ci catapulta nel mondo dei Soundgarden, sarà forse un omaggio o un richiamo ricercato di Cameron? I due pezzi in questioni sono ideali per riprendere l’ascolto e trascinandoci energicamente verso il capitolo finale inaugurato da Buckle Up: una traccia morbida che ci riporta indietro di molti anni. Potrebbe sembrare un tentativo non del tutto riuscito di scrivere un pezzo come Wishlist, ma la sua costruzione basata su un arpeggio di chitarra funziona ampiamente a mio parere, mentre risulta debole la risposta al primo tema; con Comes Then Goes ritroviamo Vedder in assetto voce e chitarra acustica, ed è subito Into the wild, una formula perfetta. Si chiude con Retrograde, ballad con la band che accompagna dalla prima strofa che termina con una lunga coda strumentale piena di echi e ambient aprendo la strada a River Cross, il classico finale romantico degli album dei Pearl Jam, con un‘altra novità da segnalare: l’organo. Eddie Vedder chiude l’album in solitaria con un pezzo di cui è autore unico, e che ha già presentato in alcuni live da solista tra cui il “One World: Togheter at home”, evento a sostegno dell’Organizzazione Mondiale della Sanità nella lotta al Covid-19 nel quale sono state trasmesse testimonianze dei lavoratori in prima linea ed esibizioni di diversi artisti. L’uscita di Gigaton, a differenza di tutti gli eventi dal vivo, fortunatamente non è stata rinviata per la gioia di tutti i fan che attendevano fortemente un nuovo disco dopo la parentesi solista di Eddie Vedder e quella meno felice (non per demeriti artistici) di Matt Cameron con i Soundgarden, alle prese con una reunion dal 2012 conclusasi poi con la tragica notizia della morte di Chris Cornell nel 2017. Un disco che fa ben sperare per il futuro della musica, per chi ha sempre paura che il rock prima o poi scomparirà, per le nuove generazioni e per chi aveva abbandonato le band degli anni 90. Un disco che fa riflettere con i suoi temi toccanti e attuali. Ne avremo di tempo per riflettere prima di tornare ai concerti per vedere di nuovo sul palco i Pearl Jam.

 

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